I wanna kill you in Paris

Mese: febbraio, 2012

Dimenticare Dimenticare Venezia

Immagino che, all’epoca in cui uscì, questo film abbia fatto il botto. Vedo frotte di sciure milanesi sciamare turbate dai cinema fumosi, con tutti i peli della pelliccia dritti. Era il 1978. La coda degli anni 70, gli anni di piombo, il grigiore. I decenni precedenti erano stati in bianco e nero, questo si giocava su infinite variazioni di grigio. Sì, il colore c’era, ma non prendiamoci in giro. Venezia si portava assai. “Dimenticare Venezia” si è annidato infatti nella mia mente bacata come il capitolo conclusivo di una trilogia ideale di film che trovo rappresentativi del gusto di quegli anni, e che ovviamente non c’entrano un cazzo l’uno con l’altro, se non per il minimo denominatore comune  dato da questa putrescente città. Gli altri due sono “Anonimo Veneziano” e “A Venezia un dicembre rosso shocking” . Fino all’altra notte non ne avevo visto nemmeno uno, anche perchè di motivi per deprimersi fino al baratro del suicidio ce ne sono parecchi, senza bisogno di aggiungerne altri tre. C’è da dire che non si tratta proprio di film che ti vengano incontro. Per qualche inspiegabile motivo sono pochissimo programmati, e comunque senza troppe fanfare; se ne parla anche meno; i dvd non te li tirano certo dietro; quelli che li hanno visti al cinema, i testimoni diretti insomma, stanno morendo piano piano o hanno l’alzheimer. E tutto ciò per ragioni misteriose, che aggiungono tristezza alla loro aura già pesantemente malinconica. E’ roba che non ha nulla da invidiare a tante cose che escono adesso e che fanno fremere inguini solitari nel buio delle sale. Il tempo offusca i capolavori, figuramoci ciò che non assurge al loro livello, il che getta una luce fosca sulle nostre esaltazioni contemporanee. Poi magari mi sbaglio, ed esistono circoli segreti di appassionati che si masturbano vedendo e rivedendo pellicole vintage di questo genere, ma tali sono le mie impressioni più genuine. Una volta rimossa la polvere, una volta accantonato il fantasma di Visconti -morto da un anno, ma incombente al punto da generare, più che un sospetto, una certezza di maniera- “Dimenticare Venezia” non ha comunque deluso le mie aspettative. Si è rivelato come lo immaginavo: un film imperniato su nostalgia, rimpianto e frustrazione. Visivamente arrancante verso una poesia che rimane solo un desiderio, ma che proprio per questo forse genera più struggimento della vera poesia. Un film anche azzardato per l’epoca, come si suol dire. Fuor di metafora: ci sono lesbiche, froci, coca, passere, mestruo, e qualche uccello in bella mostra, e per converso difficilmente i sentimenti si esprimono altro che attraverso pregnanti carezze e languidi sguardi. Insomma, scordatevi pure i baci. Chissà perchè i baci gay a quell’epoca erano tabù -se non fra donne, possibilmente sotto la doccia, e in film non di serie A- mentre la nudità era sdoganata, e invece ai nostri tempi è l’inverso. O lo era almeno fino all’altro ieri. Solo ultimamente mi pare che si assista a un riequilibrio tra tenerezze gay da una parte e sporcellerie dall’altra, e in generale -nel campo delle pudenda- addirittura quasi a una rivoluzione: dopo anni in cui culi e tette erano consentiti, e al massimo ci si permetteva qualche figa, l’uccello sta tornando alla grande. Sempre moscio, per carità, come nei gloriosi anni 70, ma qualche turgida eccezione comincia a fare capolino. L’uccello duro è sempre stato inspiegabilmente il tabù supremo, e le rare volte che se ne vede uno l’effetto è ancora quello dell’apparizione mistica. Poi magari mi sbaglio ancora -sono fallocentrico, ma anche molto fallibile, l’avrete capito- e c’erano uccelli duri anche negli anni 70, presumibilmente in qualche cosa di Warhol, però non è che le casalinghe di Voghera andassero in massa a contemplare il corpo statuario di Joe Dallesandro, almeno credo. Sicuramente obbligavano i mariti ad accompagnarle a vedere roba tipo “Dimenticare Venezia“, appunto, attratte dall’innegabile appeal romantico del titolo. E rimanevano inchiodate e perplesse per un’ora e mezza, dopodichè forse intuivano che il tizio con la barba faceva le cosacce col ragazzino dolce col pisellone, e che Mariangela Melato ed Eleonora Giorgi passavano il tempo a leccarsela. Che vuoi fare nella campagna trevigiana? Dopo un po’ anche il radicchio finisce. Ma il dubbio rimaneva, dato che il racconto procede tra detto e non detto con una preminenza di non detto. Ce l’ho avuto io per un pezzo, figurarsi ste povere criste ansiose di sfuggire alla Domenica in di Corrado e Dora Moroni. Una volta sciolto il dubbio però, i traumi non sono eccessivi: la visione che Dimenticare Venezia propone dell’omosessualità è parecchio datata, e sarebbe anche irritante se non fosse automatico relativizzare. C’è da dire che probabilmente era nelle intenzioni di Brusati (Brusati, che nome adatto: la bruma, Brusuglio e la sua collina di manzoniana memoria, tutto un florilegio di impressioni lombarde e nebbiose, un po’ bruciate, solarizzate, come una polaroid) evitare che il film si focalizzasse sul tema omosessuale e si concentrasse invece sulla nostalgia, sul desiderio di cose svanite o mai avute, sulla necessità opposta di rimuovere per poter andare avanti. Il momento di massimo fulgore è infatti quello in cui il maturo Erland Josephson -prestato a Brusati nientemeno che da Bergman- confessa al giovane amante che “non ne può più di fare il giovane“. E’ qui che si realizza il corto circuito del film: da una parte l’opportunità di dare una svolta alla propria vita, di non fossilizzarsi in attitudini logore e protratte, dall’altra il languore e il desiderio invincibili, e soprattutto comodi, del rimembrare. Per svoltare e andare avanti occorre fare uno sforzo che arriva al punto di negare il peso dei propri anni, per riposare e vivere tranquillamente basta invece lasciarsi andare a melanconici vagheggiamenti di ciò che fu o di ciò che non sarà mai. Questa materia pallosa è resa in maniera leggera e perfino visivamente colorata. Sì, sono gli anni 70, ma le cartoline con gli innamorati al tramonto non sono ancora state slavate e appannate dalla polvere delle tabaccherie. In alcuni momenti la luce brilla. Eleonora Giorgi è ancora bona, le rughe sono lontane. Sembra persino brava e non solo una povera crista bella e ansiosa di avere un contenuto. La Melato furoreggia e mostra le tette. E’ ancora viva Nerina Montagnani, la nonnina del caffè che ha segnato l’infanzia di qualche generazione (insieme a Nino Manfredi, altro nome in qualche modo legato a Brusati) e che qui si produce in un tripudio di amabili cattiverie senili e simpatiche svagatezze. Milano è sullo sfondo, e anche Venezia per fortuna. Le due città rimangono simboli delle opposte tensioni che percorrono il film -l’azione e la contemplazione- ma saggiamente non vengono mai mostrate, e il mio equilibrio psichico ringrazia. Dimenticare Venezia fu anche candidato all’Oscar. Manco a dirlo l’Academy sentenziò che, oltre a Venezia, ci si poteva dimenticare pure l’Oscar. E lo stesso destino è toccato al film stesso, che è sfumato e sta diventando una memoria in lotta contro l’oblio, quasi un sogno che durante il sonno è tanto ricco di particolari da sfiorare il barocco, e che al risveglio si trasforma velocemente in un acquerello dai tratti indistinti.

Lei conosce Søren Kierkegaard?

Quanto può essere irritante aver passato un’adolescenza leopardiana al chiuso delle biblioteche, con tutto ciò che ne consegue, essersi consumato la vista su cose di cui ai tuoi coetanei non fotteva un cazzo, averci perso letteralmente il sonno, e poi sentirsi dire in età adulta cose tipo “Søren Kierkegaard, che tu sicuramente non conosci..“. Ogni volta che succede, all my words desert me, so anyone can hurt me, and they do. L’unica replica possibile -devo ricordarmelo- è “No, sicuramente non lo conosco.

The greatest povera crista of all

Povere criste che vanno, povere criste che vengono. Whitney se ne va. Quando era arrivata? Nell’otantasete per quanto mi riguarda. In un luminoso mattino d’aprile – al termine di una settimana rimasta nella mia memoria perché me n’ero potuto stare, for the very first time, per i cazzi miei con la sola compagnia di mio padre – mio fratello tornò da Monaco carico di svariata paccottiglia, tra cui la musicassetta di Whitney. Non ricordo se fosse una cosa sua, o se me la regalò, o se fosse in comune tra me e lui come spesso accadeva a quei tempi. Dividevamo la stanza, e il concetto di proprietà privata era relativo. Fatto sta che quella musicassetta, sulla cui cover Whitney sembra proprio una che ha appena finito di raccogliere noci di cocco e di sistemarle a maturare nella paglia, divenne mia. E per settimane non feci che ascoltare How Will I Know in loop. Era un fatto nuovo. Anni di Madonna, e improvvisamente questa cosa. Al solito, non mi schiodavo da quella prima canzone. Tanto che solo per un caso fortuito – il suicidio di una celebre povera crista francese, evento abbastanza forte da distrarre la memoria da qualsiasi altra cosa e concentrarla tutta su di sé – How Will I Know non divenne la colonna sonora della mia prima grande depressione, quella sensazione mai provata prima, e non attenuata ma semmai acuita dalla violenza della primavera, in cui nulla aveva senso, se non il richiamo del balcone. Solo dopo molto tempo tolsi il repeat e mi arresi ad All At Once, che fino ad allora avevo considerato melensa, e soprattutto a The Greatest Love Of All, che divenne la mia ossessione. Una canzone densa di orgoglio di sé, ma anche di autocommiserazione. Soprattutto autocommiserazione. Non avevo neanche 15 anni e Whitney cantava, in perfetto stile da povera crista, che non aveva mai trovato “anyone who fullfilled her needs“. Son cose pesanti, che quando hai una certa età si profilano come minacciosi macigni sul tuo cammino. E sai che resteranno là per tutti gli anni a venire, e che le cose non cambieranno, per quanto tu possa sbatterti e illuderti di cambiarle. Poco importava che la canzone fosse una cover. La voce di Whitney l’aveva impressa nella mia memoria. E anche se a quei tempi lei sembrava una figura vitale e carica di energia, pure sentivo che in quelle parole c’era qualcosa di profetico. Chi avrebbe soddisfatto i suoi needs? Nessuno. Forse, anni dopo, il suo pusher. Ma giusto all’inizio, quando la droga sembra una soluzione capace di funzionare, prima di rivelarsi per quello che è: una delle tante abitudini vuote e dal sapore cinereo a cui ci attacchiamo per illuderci che l’esistenza possa avere un barlume di poesia e che sia in nostro potere creare e gestire questo barlume. Quelli, del resto, erano gli anni in cui Whitney poteva condannare Madonna come cattivo esempio per le nuove generazioni e sostenere che non sarebbe stata contenta se i suoi figli avessero amato le canzoni di una che diceva loro che avrebbero avuto successo se avessero puntato tutto sui soldi e sulla mercificazione del proprio corpo. Gli anni in cui mi ritrovavo, curiosamente sempre insieme a mio fratello, ad assistere ai suoi bis a Sanremo, la notte in cui questa povera crista e le sue corde vocali si arresero docilmente all’insistenza di Pippo Baudo, eseguirono All At Once per un tempo che sembrò infinito, e provocarono un terremoto di applausi che tuttora non è facile dimenticare e che indusse mio fratello – non molto propenso ad entusiasmi verso figure di questo tipo – a giudizi enfatici circa la sua grandezza artistica e la sua potenza vocale. Whitney rappresentò, sotto un altro punto di vista, una rivoluzione nel mio universo personale. Insomma, se per anni, al chiuso della vostra camera, cantate sopra la vocina squittente di Madonna, è un conto. Quando provate a fare la stessa cosa sulla voce di Whitney, vi accorgete che il mondo gira in un altro modo. Whitney mi chiuse misericordiosamente la gola. Divenne invece la compagna di tanti playback sotto la doccia, specie con il secondo album e con I Wanna Dance With Somebody, che, mentre l’acqua scrosciava, aveva lo straniante potere di farmi sentire in un altro luogo. A New York, per l’esattezza. With somebody. Bisognava che ci fosse l’atmosfera giusta, quella luce azzurro violetto con una traccia di sole che arrivava solo tra le cinque e le sei di certi pomeriggi primaverili ed estivi, attraverso i vetri smerigliati della finestra del bagno. Guardavo il mio corpo riflesso nello specchio, prima che si offuscasse di vapore, percorrevo con un dito la linea del fianco destro, dal bacino fino alla congiunzione tra il torso e il braccio, stupendomi dell’equilibrio tra carne e ossa, tra morbidezza e durezza, e intanto immaginavo grattacieli e sbevazzate di bloody mary nella Grande Mela. La canzone che veniva dopo sinceramente non la ricordo, perché a quel punto avevo già iniziato a spararmi una sega. Negli anni che seguirono Whitney rimase una cara amica a cui volevo bene più che altro per i passati trascorsi. Facevo l’università. Le illusioni avevano iniziato a rivelarsi come tali. The Bodyguard aveva dato, per quanto mi riguardava, il colpo di grazia alla sua immagine, trasformandola da ragazzina piena di simpatia e talento a stronzetta che provava in maniera pretenziosa a costruirsi uno stile, senza arrivare da nessuna parte, se non ad una dimensione truzza priva di originalità. La persi di vista, preferendo tenermi cari i ricordi di quell’ultimo scorcio degli anni 80. Giusto alla fine di quel decennio liquido e zen che furono gli anni 90 la recuperai vagamente. In un momento in cui tutto crollava attorno a me, My Love Is Your Love veniva magicamente a dispensarmi quelle illusioni di cui bisogna essere grati al pop. La sua voce era già diversa. Aveva sfumature amare e incrinature che lasciavano intuire chiaramente quanto certe speranze fossero precarie e quanto nel campo dei sentimenti, più che il risultato zuccheroso, conti – in termini di crescita e humus per il nostro spirito – l’energia che vi si profonde inutilmente. Quell’amarezza e quelle incrinature hanno prevalso.  Il vaso è andato in pezzi, drifting on a lonely sea, e la leggerezza del pop non ha potuto nulla. Io non so da dove mi venga questa quasi totale assenza di moralismi che mi salva dall’essere giudicante al cospetto di morti di questo tipo, ma la considero una fortuna. Sempre meglio del cinismo d’accatto. Questa povera crista ha vissuto come ha potuto e come le pareva. A quanto pare ha dovuto sopportare un dolore che potrà anche essere insignificante rispetto a tutti gli altri dolori di cui è pieno il mondo, ma che per lei era sufficientemente grande da non poter essere affrontato nei modi comuni. Un dolore contro cui nulla hanno potuto i patetici ritorni sulla scena e i tentativi di aiuto, non so quanto efficaci, da parte di altri. Il mondo avrà perso il suo talento, ma il mondo è un tantino egoista. E’ un vampiro che avrebbe succhiato quel talento fino ad esaurirlo, e che succhierà nutrimento anche dalla morte di Whitney. Lei invece avrà finalmente trovato a lonely place to be. Il posto solitario in cui spesso ti conducono i sogni. Il posto in cui muoiono i sogni. In questo posto, suggeriscono i versi, l’unica soluzione è trovare la propria forza nell’amore. Anche oltre la soglia della solitudine più definitiva, il pop non rinuncia a un ultimo, romantico e disperato inganno.

Abrenuntio

E rieccola. Se volessi darmi un tono da intellettuale, sciorinerei tutti i punti deboli di questa canzone, di questo video, di lei. E’ uno sport a diffusione mondiale. Più sei una merdina sfigata che vuole apparire colta e raffinata e alternativa, più spari su Madonna. Quando l’unica cosa che dovresti fare sarebbe non dico tagliarti coerentemente le vene nel buio della tua cameretta, ma perlomeno tacere, se proprio sei così rarefatto e sucato. Io delle cose di cui non m’importa non parlo. Ma in fondo è sempre stato così. Ho vaghi ricordi di un tempo in cui Madonna veniva percepita come fresca e rivoluzionaria. Il vento è cambiato subito, e la povera crista suprema è diventata il Male. Essere suo fan non ha mai fatto figo, ed ecco spiegato in poche parole perchè lo sono. Sarò superficiale, sarò banale, fatto sta che detesto il populismo di ritorno e sono troppo snob per non amare qualcosa che è sempre stato utile snobbare. Madonna è un moloch che nessuno distruggerà. E’ esistita sempre. E’ una categoria dello spirito. E’ una catastrofe naturale. Ci sono periodi in cui credi di esserti messo al riparo, ma sono illusori. Puoi fare appello alla razionalità, ma arriverà sempre il momento della resa. Il momento in cui le bastano tre parole cretine in croce, due passettini e un’occhiata per liquidare con nonchalance qualsiasi appunto, qualsiasi critica, qualsiasi sarcasmo. Il mondo avrà pure tutte le ragioni a demolirla, ma guardatela: lei se la ride e ha l’aria di godersela. E’ scema lei, o è scemo il mondo? La cosa affascinante è il suo potere di infondere forza alle stronzate, trasfigurarle, renderle incontrovertibili. Insomma, la canzone potrà pure essere bollata come stupidina, ma gli assunti che propone sono difficilmente contestabili, sempre se non avete un cece al posto del cervello. Tutto il contrario di “Masterpiece”, a ben vedere, che si presenta con la serietà e la compunzione di un testo sacro e invece è un cumulo di stronzate ben confezionato. E’ una deriva lungo la quale si potrebbe arrivare a sostenere che tra Nicky Minaj e M.I.A. la personcina di sostanza sia la prima e non la seconda, ma non arriverò a tanto. Mi stanno simpatiche entrambe, ma di una simpatia che trascolora nella compassione: è risaputo che quando ti accosti a Madonna il rischio di bruciarti come una falena è consistente. Ed entrambe mi sono poco conosciute. Ammetterlo non fa figo, ma i miei valori sono capovolti. Senza contare che l’irrisione è ai miei occhi molto più importante della verità, e sono finiti i tempi in cui sprecavo energie a dimostrare l’evidenza, a dimostrare che non tutte le mie conoscenze passano per Madonna. Se volete pensare che io abbia ucciso mio figlio, quando in realtà è stato un dingo, fatelo pure. Se volete pensare che Madonna sia il mio nome d’arte, fatelo pure. Se volete pensare che conosca e apprezzi M.I.A. e la Minaj grazie a questa collaborazione, tanto meglio. La verità è che le trovo due belle bamboline, ognuna con una sua funzione precisa. Spero che da Madonna traggano più vantaggi che danni, ma fossi in loro non mi farei troppe illusioni. Lei ha avuto ciò che voleva. Due ancelle per il suo rito autocelebrativo. E intanto ha sfondato porte con la carrozzina, manco fosse la madre de La corazzata Potemkin, si è fatta inseguire e sostenere da una mandria di giocatori di football, ha camminato spensierata sui loro giubbottini, e lanciato alle ortiche un simbolico bambolotto, il tutto ostentando superiorità, divismo, e indifferenza alle regole dei comuni mortali. Ho sempre pensato che fosse un’ingenuità vedere Madonna come una rivoluzionaria, come qualcuno in grado di portare avanti battaglie e vincerle, ma mi devo arrendere. Temo che se un giorno ci saranno meno pregiudizi, se un giorno ci saranno meno teste di cazzo, se un giorno la gente vedrà un po’ più in là del proprio naso e giudicherà in modo un po’ più libero da condizionamenti idioti, lo si dovrà anche a questa povera crista. Certo, ci sarà anche un po’ più di frocitudine, perchè è impossibile non sentirsi ancora più froci e non desiderare dei pon pon dopo questa canzone, ma certe cose hanno un prezzo. Ed è qui che si comincia a pagare. Col sudore. E non è tutto.

In un altro tempo, in un altro luogo

Quando ero piccolo una cosa soprattutto non riuscivo a capire: perchè cazzo dovessi crescere in un oscuro paesino della Calabria. Ricordo distintamente una sera d’inverno in cui, presumo davanti a film di Douglas Sirk, chiesi a mia madre “Ma scusa, perchè non andiamo a stare a Hollywood?”. All’epoca non avevamo gatti, ma chissà perchè me la immagino alzare la testa sconcertata mentre ne spulcia uno accanto al fuoco. I bambini sono delle teste di cazzo, su questo non ci sono dubbi, eppure più ci ripenso più mi dico che tutti i torti non li avevo. Ci saremmo evitati il ventennio berlusconiano, se non altro. Non ci saremmo ritrovati al centro della crisi e alla periferia dell’impero, bensì nella situazione esattamente contraria: al centro dell’impero e alla periferia della crisi. Senza contare che invece di passare il tempo a farmi stupidi autoscatti manco fossi Frida Kahlo, starei lì a paparazzare divi e povere criste coi controcazzi, o più probabilmente a pattinare a Venice in shorts con una parrucca bionda. Perchè non ce ne siamo andati? L’ideale dell’ostrica, o della vongola, o della cozza, o di quel cazzo che è, Verga mi perdoni. Mancanza di lungimiranza. Acquiescenza. Pigrizia. Ieri leggevo Levi, e mi sono imbattuto in un passaggio de I sommersi e i salvati che mi ha ricordato quest’episodio, e che mi ha messo in crisi. Uno dei tanti passaggi, intendo. Pare che una delle domande più frequenti che Levi si sentiva rivolgere fosse questa: “perchè non ve ne siete andati prima della deportazione, perchè siete rimasti?”. E lui non solo elenca una serie di ragioni che ora non starò a ripetere, ma sposta l’interrogativo: perchè noi, adesso, restiamo dove siamo e non ci trasferiamo dall’altra parte del mondo? Il libro è degli anni 80, la minaccia nucleare era sentita molto più di ora, e Levi parla, a ragione, dell’Europa come di uno dei territori che più sarebbero stati colpiti in caso di guerra atomica. Ora, senza arrivare a immaginare conflitti estremi, perchè cazzo ce ne stiamo qua, in un paese di merda, in una situazione di merda, ricoperti pure da metri di neve, e non ce ne andiamo in Polinesia? Ci meritiamo tutto.

Durante la tormenta

Nudi al sole su pietre roventi,

accarezzando iguane indifferenti

Primo

Oggi nevica che dio la manda. Mai visto niente del genere, a parte nel Dottor Zivago. Invidio i bambini -grandi e cresciuti- che trovano la cosa affascinante o divertente: vorrei avere la loro spensierata freschezza, ma non ce l’ho. A me girano i coglioni, e se riesco a tornare a casa senza rompermi una gamba -come ho rischiato stamattina quelle quattro o cinque volte  mentre andavo al lavoro – mi ci barrico e fanculo a tout le monde. E’ il clima giusto per leggere Primo Levi. Chissà perchè in quasi quarant’anni non mi ero ancora deciso. Anni di muta e ignorante ammirazione, e solo l’altro giorno ho comprato Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Un po’ avevo paura di deprimermi troppo. Un po’ ho sempre avuto questa tendenza a “tenere da parte qualcosa per i tempi di magra”, tipo gli scoiattoli che si riempiono le guance di noccioline. I tempi di magra sono arrivati. Da un pezzo non mi capitavano letture appassionanti, e Primo Levi ha colmato questo vuoto. Mi sta abbagliando tanto quanto Natalia Ginzburg, che pure mi ero tenuto da parte per la vecchiaia, mi aveva deluso. E’ come me lo aspettavo: lucido, razionale, implacabile. Quando ti senti circondato da imbecilli, rifugiarsi nelle riflessioni di una mente superiore è rigenerante e consolatorio. Ecco un altro che mi sarebbe piaciuto conoscere, anche solo per lustrargli le scarpe e mettergli in ordine la scrivania. Dalle interviste sembra un uomo non solo intelligentissimo, ma anche piacevole. Ha quella grazia, quella cortesia, quella pacatezza oggi praticamente introvabili. Mi sta facendo lo stesso effetto che -in tempi ormai lontani- mi fece la lettura di Virginia Woolf. Se l’umanità può produrre individui di questo tipo, allora non tutto è merda e idiozia ed egoismo. Mi pare di respirare, come quando chiacchieravo con mio padre. Al tempo stesso mi sento un vermiciattolo. Insomma, questo aveva il cervello che gli fumava, e ben prima della mia età aveva pure una maturità che io sono ben lontano dal raggiungere. Mi sa che ero poco più che quattordicenne quando si gettò dalle scale e morì. Ricordo la faccia di mia madre alla notizia. Ricordo la sensazione di ineluttabilità del male che mi assalì. Abbiamo perso molto, come avvenne per Pasolini. E non abbiamo perso solo un testimone. Credevo che Primo Levi fosse giusto un lucido e attento cronista del lager. Mi sono dovuto rendere conto che i suoi scritti trascendono questa esperienza, per quanto capitale e sconvolgente, e penetrano in maniera quasi chirurgica nel tessuto della natura umana. Per uno come me, ossessionato dal ricordare, la disamina meticolosa dei meccanismi della memoria, che apre I sommersi e i salvati e che va avanti per pagine e pagine, è stata spiazzante e dubito che smetterà presto di macinarmi in testa. Sempre se riesco a farcela attraverso la tormenta.