I wanna kill you in Paris

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Io e Carolina

bellavistaNon vorrei morire dopo aver visto Napoli. Vorrei semplicemente tornarci. Oscuramente presagivo che me ne sarei innamorato,  ma come l’innamoramento nei confronti di una persona è qualcosa che mi ha sempre fatto tremare un po’ i polsi (quando sei da solo sei tutto tuo, quando sei con un altro sei per metà tuo, diceva la buonanima) lo stesso vale per una città, e segnatamente una città come questa, quindi avevo alzato rispetto a Napoli resistenze imponenti come le mura di Gerico. Neanche mi ci fermavo per un cambio di treno, all’inizio per paura, ultimamente per non cadere vittima di una fascinazione che sentivo imminente. Alla fine ho dovuto cedere, anche perché tutto -amici, treni, sfogliatelle- mi portava là.  Ho sempre avuto repulsione per il caos e il disordine, per la mancanza di regole, e mi sono piccato fin dalla più tenera infanzia di essere un tipo preciso, quasi teutonico. Malgrado i miei mi raccontassero storie colorite e vivaci circa il loro soggiorno a Napoli durante il loro viaggio di nozze, malgrado le risate scatenate dai loro aneddoti, malgrado mi avessero tirato su a film della Wertmueller e commedie di Eduardo, io mi ero sempre detto che l’ordine nordico e teutonico fosse più indicato per un ragazzino che sistemava i libri in ordine alfabetico e parlava piano pur senza andare in giro armato. Non avevo messo in conto la noia, e non avevo messo in conto il marcio che sempre e comunque si nasconde pur dietro la cortesia e l’educazione più smaccate. La Danimarca insegna. Alla fine, messo il piede giù dal treno, ho dovuto riconoscere che quella fiumana di umanità vociante, di monnezza, di motorini sfreccianti con a bordo tre o quattro persone senza casco, di vecchie travestite che ti apostrofano con violenza ma in qualche modo con affetto, di vajasse che fumano eternamente affacciate sulle vie strette tra palazzi altissimi cadenti e drappeggiati di panni stesi, di vecchi malandati che ti vendono gobbi e cornetti e ti augurano una fortuna da cui loro con ogni evidenza non sono stati baciati, non aveva semplicemente fascino, ma una bellezza in grado di ammaliare e imprigionare. Lo so, rischio di cadere nell’oleografia, nel bozzetto alla Salvatore di Giacomo, nel cliché più vieto, ma francamente me ne fotto, come qui avrebbe detto Rhett a Rossella lasciandole come unica alternativa quella di scapparsene non a Tara ma a Posillipo. Il cliché è ovunque, e in una misura tale da annientarne l’essenza. E’ nelle chiese che spuntano a ogni giro di vicolo, talmente dirute che un terremoto potrebbe più riassestarle che danneggiarle. E’ nei manifesti a lutto, che sdrammatizzano la morte grazie ai soprannomi che distinguono il defunto dalle migliaia di omonimi anonimi ancora in vita. E’ nei presepi che dalle botteghe prolungano il natale oltre l’epifania. E’ nelle persone che ti inquadrano con uno sguardo, individuano con la precisione di un sensitivo la tua essenza e in un giro di frase ti mettono davanti al tuo vero io come neanche uno psicologo saprebbe fare, ti spogliano di ogni maschera e ti lasciano solo quella che avevi o avresti voluto avere fin da quando eri piccolo e che pensavi di avere ormai seppellito sotto cumuli di educazione e dissimulazione. Quando sono risalito sul treno e, in prima classe, ho dovuto subire la cafonaggine di tre cumenda milanesi che latravano come fossero nel loro salotto e guardavano tranquillamente le partite incuranti del prossimo che li circondava, mi sono reso conto di quanto fosse più elegante e urbano il baccano di Forcella e di Via dei Tribunali, di quanto la distesa di birre rotte e spazzatura che ogni sera si allarga per piazza Bellini come un’inarrestabile colata di lava fosse più umana, autentica, e meno affettata di tanta falsa cortesia che per anni ho ritenuto rendesse la vita più facile e che invece, forse, la rende solo vuota e noiosa. Lo so, gli occhi dell’amore sono miopi, o strabici, o quel cazzo che volete voi. E Napoli sarà anche piena di difetti. Ma l’amore è proprio questo, trasforma i difetti in pregi. Non so quanto durerà, niente dura, ma finché dura non c’è altro da fare che goderselo. E oltre ad essere banale e bozzettistico, voglio pure essere presuntuoso: ho la sensazione di essere ricambiato.  Più di quarant’anni fa i miei genitori arrivarono a Napoli con una seicento fiammante, detta Carolina, bianca e senza un graffio, col portabagagli carico di valigie. Parcheggiarono senza neanche chiuderla, si fecero un giretto, e quando tornarono Carolina era ancora là intatta, con tutto il suo carico, alla faccia di tutti i cliché o forse proprio grazie a quei cliché. Quasi quasi parcheggio pure io, e manco metto le sicure. 

Il regno degli eroi

 

Dicheno che il culto del sole sia un culto virile, e che quello della luna non lo sia. Dicheno. In Ludwig dicheno che lo dicheno. E quando mai. Ma per Ludwig è sempre stata la notte, e non il giorno, lo sconfinato regno degli eroi. E povero il professor Gudden, costretto a confrontarsi con un mistero, un mistero per gli altri, ma soprattutto per se stesso. Qualcosa di simile provo per la dicotomia estate-inverno. Non che l’estate non possa essere regno di eroi. Sfido chiunque a starsene nudo ad agosto sulla spiaggia deserta e lunga di Riace e a non sentirsi un bronzetto trionfante. Ma quanta fatica costano, e soprattutto quanto durano i trionfi effimeri degli eroi? Neanche il tempo di festeggiare che già gli dei ti stampano una pedata sul collo e mossi a pietà al massimo ti scaraventano tra le stelle -le stelle appunto- sotto forma di costellazione. Quegli stessi dei a cui il concetto più definitiva che si possa associare è un lungo e sfibrante crepuscolo. Le mie depressioni più acute non sono legate all’inverno, che è una interminabile notte, rassicurante e avvolgente sia quando non è percorsa da suoni sia quando è squassata da vento e pioggia, ma all’estate, al suo sole implacabile e straniante. Le strade infuocate di questa città quando arriva l’afa. I diavoli affrescati nel cielo azzurro di un’altra città, a mezzogiorno, in un altro tempo ormai finito. I demoni meridiani. L’ora dei colpi di sole, quella in cui si manifestano gli spiriti più malvagi. Sirene, arpie. La luce che ti annienta sulla sabbia quando la mattina è finita e il pomeriggio non è ancora iniziato. Il bianco abbacinante delle strade di Tangeri. La fine del Danno. Lo scazzo di Bowles. I ricordi ormai evanescenti, ma luminosi, di Orano e di Camus. La morte che con la falce batte le dodici nei caroselli dei campanili, nelle città del Nord come in quelle del Sud. Le lucertole agonizzanti sul selciato che mio padre credeva di indicarmi nel primo pomeriggio di un luogo ostile. Le scaglie dorate del mare di Tindari, dopo il matrimonio. Le stoppie riarse. Gli eroi implacabili. Si tratta solo di resistere al passaggio, e di abituarsi a questa spietatezza, e amarla di nuovo.

 

The sun is bursting right out of the sky

Voi che nell’otantasete non c’eravate purtroppo non potete capire cosa volesse dire alzarsi, metter su la cassettina di True Blue, e andare a scuola pensando che i sogni potessero davvero avverarsi, che ci sarebbe stato sempre il sole, che avreste abitato a New York, e che quella donna dalla pelle perlacea, gli occhi che passavano attraverso infinite sfumature d’azzurro, le labbra rosse come solo vostra madre negli anni 50, vi avrebbe sempre scaldato col suo luminoso magnetismo.

1 marzo 2012

A Bologna oggi c’era il sole, un cielo azzurro come poche volte succede, una temperatura finalmente decente, una bici appoggiata a un muro di Vicolo Luretta col cestino davanti pieno di fiori finti e dietro -perchè non si sa mai- un plaid bianco legato stretto, e verso l’una c’era nell’aria anche la morte di Lucio Dalla. Scendevo per la solita Via dell’Inferno, in pieno ghetto, e un ragazzo seduto su un gradino mi ha gridato: “lo sai te, che è morto Lucio Dalla?“. La vita, nonostante i social network. Ho risposto di sì, perchè in effetti lo sapevo, l’avevo imparato poco prima al lavoro. Le ragazze nella stanza di là avevano praticamente smesso di lavorare e leggevano le notizie ad alta voce. Uno può avere il cuore di pietra, ed essere cinico quanto vuole, e non amare molto un certo tipo di musica, ma se vive in questa città e nonostante tutto la ama, non può rimanere indifferente. Io ci vivo da più di vent’anni, tanto che ormai posso dire che Bologna è stata teatro di più di metà della mia esistenza. Domani avrò 39 di anni, e sono arrivato che ne avevo 17. Lucio Dalla era facile incontrarlo, e lo incontrai subito. Ci fu un gioco di sguardi e un piccolo pedinamento in una libreria di Via Farini, che non esiste più, e per quanto lui non fosse il mio tipo, per usare un eufemismo, la cosa mi divertì e mi fece piacere. Era una specie di genio del luogo, un nume tutelare. E la mia impressione era che non se la tirasse affatto. Parlava con chi lo fermava, faceva la foto di prammatica, dava l’idea di essere curioso e interessato. Una volta ci ho pure litigato, come ho avuto occasione di raccontare qui, e lui si comportò da signore malgrado il mio temperamento fumantino. Avrebbe potuto mandarmi a cagare, e invece finì a tarallucci e vino. Credo che a mia madre stesse simpatico. Qualche mio ex citò alcuni suoi versi in una lettera d’amore indirizzata a me, e per quanto ora quelle parole navighino nella mia coscienza come relitti senza forma, dubito che le dimenticherò: “che tenerezza, che commozione“. O qualcosa del genere. Odio roba tipo Caruso, ma è da quando ho memoria che Capodanno non è Capodanno senza l’Anno che verrà. Anni fa con la Miky ridevamo perchè si raccontava che il giorno prima, mentre all’alba faceva step sui gradini di San Petronio, lui era caduto, e un umarell gli aveva detto: “sta ben drett!“. Un tizio che odio si vantava di avergli acceso una sigaretta all’inaugurazione di una mostra. Una tipa grassissima e snob che sedeva vicino a me durante diritto privato, in Via dello Scalo, ci teneva a farmi sapere che Lucio Dalla era cliente di suo padre e aveva case dappertutto, in particolare una in Via Marescotti, e che lei mi ci poteva portare. Come se me ne fregasse molto. Era la stessa che giudicava “intensa” la vita notturna di Bologna. Nel 90 forse la vita notturna era intensa. Mentre scrivo, più di vent’anni dopo, c’è una stellata che è il contraltare del cielo azzurro di stamattina. Non capita spesso qui. Sono sceso a fare la spesa, e quelli del Rubik avevano la musica di Dalla sparata a tutto volume. Proiettavano immagini dei suoi video su un muro della chiesa di San Martino. 4 marzo 1943. Ho pensato che io sono del 2 marzo 1973 -trent’anni dopo, pesci- e mi sono chiesto quand’è che toccherà a me. Nonostante sia sera è ancora caldo e, che piaccia o no, è morto un poeta.

In un altro tempo, in un altro luogo

Quando ero piccolo una cosa soprattutto non riuscivo a capire: perchè cazzo dovessi crescere in un oscuro paesino della Calabria. Ricordo distintamente una sera d’inverno in cui, presumo davanti a film di Douglas Sirk, chiesi a mia madre “Ma scusa, perchè non andiamo a stare a Hollywood?”. All’epoca non avevamo gatti, ma chissà perchè me la immagino alzare la testa sconcertata mentre ne spulcia uno accanto al fuoco. I bambini sono delle teste di cazzo, su questo non ci sono dubbi, eppure più ci ripenso più mi dico che tutti i torti non li avevo. Ci saremmo evitati il ventennio berlusconiano, se non altro. Non ci saremmo ritrovati al centro della crisi e alla periferia dell’impero, bensì nella situazione esattamente contraria: al centro dell’impero e alla periferia della crisi. Senza contare che invece di passare il tempo a farmi stupidi autoscatti manco fossi Frida Kahlo, starei lì a paparazzare divi e povere criste coi controcazzi, o più probabilmente a pattinare a Venice in shorts con una parrucca bionda. Perchè non ce ne siamo andati? L’ideale dell’ostrica, o della vongola, o della cozza, o di quel cazzo che è, Verga mi perdoni. Mancanza di lungimiranza. Acquiescenza. Pigrizia. Ieri leggevo Levi, e mi sono imbattuto in un passaggio de I sommersi e i salvati che mi ha ricordato quest’episodio, e che mi ha messo in crisi. Uno dei tanti passaggi, intendo. Pare che una delle domande più frequenti che Levi si sentiva rivolgere fosse questa: “perchè non ve ne siete andati prima della deportazione, perchè siete rimasti?”. E lui non solo elenca una serie di ragioni che ora non starò a ripetere, ma sposta l’interrogativo: perchè noi, adesso, restiamo dove siamo e non ci trasferiamo dall’altra parte del mondo? Il libro è degli anni 80, la minaccia nucleare era sentita molto più di ora, e Levi parla, a ragione, dell’Europa come di uno dei territori che più sarebbero stati colpiti in caso di guerra atomica. Ora, senza arrivare a immaginare conflitti estremi, perchè cazzo ce ne stiamo qua, in un paese di merda, in una situazione di merda, ricoperti pure da metri di neve, e non ce ne andiamo in Polinesia? Ci meritiamo tutto.

La règle du jeu

Gente che veste in modo orrendo insegna ad altra gente che veste in modo orrendo a vestirsi in modo ancora più orrendo. Ma uno come fa a guardare ste cose? Covo odio e ho ancora la tosse. Sono andato a comprare La règle du jeu. Tormentato da Visconti per anni, non ho nulla di Renoir. Life’s little ironies. Ma mi si stringeva il cuore a pensare a Luchino muto alla corte di Renoir. Incapace di aprir bocca, neanche con Chanel, che pure lo adorava. Un nobile fascista e imbecille. E’ terribile pensare alla propria gioventù e rendersi conto di quanto si è stati idioti. La depressione che ti viene a rivederti così indifeso e ingenuo. Lì per lì mi è pure venuta voglia di prendere French Can Can, sempre di Renoir, e anche Moulin Rouge, di Houston.  Non ne so nulla. Me li immagino come frutti della stessa temperie, frutti rivali probabilmente, come spesso capita. Mai visto nessuno dei due. Ho sempre avuto un’intima avversione per certe atmosfere, e forse è ora di superarla. Chissà da dove nasce. A volte ti devi aggrappare a piccoli dettagli. Le cover dei dvd aiutano. Certi acquerelli vezzosi così anni 50, pallidi, slavati, confetto, che mi ricordano le illustrazioni delle enciclopedie letterarie di mia madre che compulsavo da piccolo. Ingiallite dal tempo, polverose, crepuscolari. Probabilmente le uniche cose che vorrei salvare da un inevitabile naufragio. Tenetevi le case e i terreni, i mobili e i gioielli, e lasciatemi questi volumi tarlati intrisi di una prosa desueta, costellati di foto, e a volte dagherrotipi, dei morti con cui dialogavo e che ancora adesso, a volte, mi sembrano l’unica compagnia tollerabile.

Avventuriera

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Non saprei dire quando ho cominciato a rendermi conto che certe mie cose apparentemente scollegate tra di loro -interessi, passioni, ossessioni- erano in realtà unite da oscuri legami. Alcune volte cado ancora nella tentazione di pensare che tutto questo insieme del cazzo -per usare un’elegante metafora- sia gestito da forze ultramondane. Altre volte, con la razionalità del Reverendo Beebe in Camera con Vista, mi dico che ogni combinazione di questo tipo, per quanto inaspettata e sorprendente, può essere comodamente spiegata attraverso una serie di inattaccabili sillogismi. Certo, se al principio degli anni ottanta qualcuno mi avesse detto che la mia curiosità per Wallis Simpson e la mia malattia per quella povera crista planetaria che è Madonna si sarebbero magicamente incontrate quasi trent’anni dopo, lo avrei preso per pazzo. Non che della Simpson me ne fottesse poi tanto, però è indubitabile che questo sia  uno dei personaggi che per primi emergono dalle nebbie della mia infanzia. Sono sicuro di aver saputo chi era lei prima ancora di essere venuto a conoscenza dell’esistenza di Audrey Hepburn, tanto per dire. Al solito, come nella migliore tradizione frocesca, diretta responsabile di tutto ciò è stata mia madre. Lo scandalo dell’abdicazione doveva aver colpito la sua immaginazione talmente tanto da spingerla a spenderci qualche innocua parolina esplicativa a commento degli accenni alla vicenda che ogni tanto facevano capolino in film o sceneggiati. Input che ti segnano, perchè dubito che la maggior parte dei bambini normali si metta a riflettere sulle implicazioni e i risvolti di fatti pericolosamente classificabili come minchiate, avvenuti oltretutto cinquant’anni prima. Se non altro questa è una cosa che è rimasta in superficie. Non sono andato ad approfondire, ecco. E non lo farò neppure ora che la Vecchia ha esteso il proprio discutibile regno anche a queste lande nebbiose e in bianco e nero dell’anteguerra. Voglio che Wallis rimanga il personaggio di una favola che mi sono sentito raccontare quando ero piccolo. E i personaggi delle favole non hanno una biografia troppo piena di dettagli, e soprattutto non sono pluridimensionali. Mi bastano gli elementi che ho, e che nel corso degli anni me l’hanno fatta vedere prima come una donna innamorata e osteggiata dalla società, poi come una simpatica avventuriera un po’ cessa (categoria per la quale nutro profonda ammirazione) capace di tenere in scacco un re grazie a due o tre giochetti simpatici imparati in Estremo Oriente, poi come una vittima indifesa dell’inflessibile e spietato rigore morale della Regina Madre, e infine come una povera crista da antologia. La povera crista arrampicatrice, che dal Nuovo Mondo torna al Vecchio, e cerca una sistemazione nelle nebbie della Londra di prima della guerra. Una che starebbe in buona compagnia di patetici personaggi tipo l’Uomo Lupo di Lon Chaney Jr. o il Conte Dracula di Bela Lugosi. Uno di quegli strani melange che la cronaca a volte offre, e che pur nella loro limitatezza finiscono con l’ingigantirsi fino a influire sul destino di una nazione, o a legare il proprio nome a quello di Adolf Hitler, o a dare una spintarella sul cammino della frociaggine ad un oscuro pargolo del profondo Sud. Non riesco a trovare in Wallis lo spunto per riflessioni particolarmente profonde. Le traversie che hanno portato all’abdicazione non mi sembrano gravide di alcunchè, l’idea della povera crista che assurge quasi al rango di regina è un po’ trita.  Trovo un barlume di fascino giusto nell’esilio, nell’implacabile ostracizzazione di cui è stata fatta oggetto, e nel potere magnetico che certi individui hanno di asservire e incatenare qualcuno pur essendo apparentemente privi di particolari qualità. Insomma, che cazzo di fascino doveva avere questa? Dalle foto non traspare. Vedi questa donnetta segaligna con l’acconciatura da cocker, e ti chiedi perchè mai uno dovrebbe rinunciare a un trono per sta povera crista, talmente scorfana da indurre qualcuno a ipotizzare che in realtà fosse un uomo (anche ammesso, avrei comunque preferito Cary Grant in “Ero uno sposo di guerra”). Vabbè che Eddie era palesemente un coglionazzo, però lei doveva avere davvero qualcosa di speciale per trascinarlo a un passo così clamoroso. Un passo che poi da solo basta a purificare lui e a renderlo nonostante tutto una figura memorabile. La fottuta potenza dell’amore. Raramente nella mia piccola esperienza l’ho vista esplicarsi fino a nobilitare gli uomini. L’amore che mi è capitato di vedere si è sempre puntualmente piegato a bassezze e meschinità, il che mi ha condizionato al punto che oggi non posso fare a meno di sospettare che anche una storia come quella di Wallis ed Edoardo sia stata puntellata da altrettante bassezze e meschinità. C’è una foto in cui Wallis, ormai vecchissima e con più rughe di Marta Marzotto -soltanto in bianco e nero- guarda fuori da una finestra, oltre le tende di pizzo. Ha l’espressione patetica, gli occhi colmi di lacrime. Credo che lui sia appena morto e a lei, pseudo-aristocratica sfigata continuamente buttata giù dalla scala, sia stato eccezionalmente consentito di partecipare al funerale. La finestra è una di quelle di Buckingham Palace, e tutto fa capire che la povera Wallis, perfino in quell’occasione, dev’essere stata trattata un po’ peggio della figlia della serva. Tuttavia il tormento non sembra nascere da questo. Il suo sguardo è tristemente e semplicemente emblematico di quale sia in definitiva il dono dell’amore, foss’anche il più grande e intenso. Un giardino vuoto.

Souvenir di Roma

Non si trattava di una soffitta. Non della classica soffitta abbandonata da romanzo. Era una stanza più che vissuta. Era cucina e soggiorno. Era il cuore della casa, con intorno una terrazza che d’estate prendeva vita e, più su, collegata alla prima tramite una scala a chiocciola che portava direttamente in cielo, un’altra terrazza popolata da un esercito di comignoli. Ora, questa soffitta, così trafficata, in alcuni momenti si trasformava in un luogo dimenticato. Il pulviscolo nei raggi del sole pomeridiano. Il frusciare di una lista della spesa vecchia di anni. L’odore di medicinali ormai evaporati. Pomeriggi di giugno in cui, se la casa piombava nel sonno, questa stanza sembrava caduta in un coma verde e dorato. Mattinate luminose quando, prima di una certa ora -di solito le undici- grattacieli di vetro crescevano improvvisamente fuori dalle finestre. Crepuscoli violacei che vedevano ogni suo mobile imputridirsi e seccare fino a diventare come di un legno grigio che si sfarinava a toccarlo. In questi abissi temporali, durante i quali le ore si capovolgevano, era abbastanza naturale che singoli oggetti si stagliassero su altri e prendessero vita. Tra questi, uno dei più capaci di vivere e di lasciare un’impronta nella memoria si è rivelato essere una gabbia. Una gabbia di legno grigio -naturalmente- squadrata, con le reti talmente sottili da sembrare zanzariere. Un parallelepipedo che forse in passato aveva racchiuso un merlo, ma non ricordo se avevo fatto in tempo a vederlo o se mi era stato solo raccontato. Prigioni vuote di uccelli morti. A partire da un momento imprecisato, questa gabbia era diventata un deposito di cianfrusaglie. Sarebbe impossibile descriverle. Sono scomparse. Cancellate da qualcosa che, inspiegabilmente, le sovrastava. Un portapenne di marmo. Pesante. Una riproduzione del Vaticano, di Piazza San Pietro, con tutto il colonnato. Il marmo era ormai scuro per la polvere e il fumo, ma rimaneva bianco, se riuscite ad accettare questo fatto. Chi lo aveva portato? Era stato un regalo di estranei, o una brutta cosa gozzaniana di cui si era innamorato a prima vista qualche abitante della casa? Questo abitante era ancora vivo, o era morto prima che nascessi? Non l’ho mai saputo. Il souvenir di marmo si limitava a rimandare a un tempo che non avevo vissuto. Gli anni 60. Ma più probabilmente gli anni 50. Anni levigati, in cui qualcuno, che ora era maturo, aveva camminato giovane per le strade di Roma. In quelle stesse strade, in quegli stessi anni, ho visto camminare me e te. Una fotografia Ferrania. I bianchi nitidi, i neri profondi, i grigi liquidi. E non eravamo quelli che siamo ora. Eravamo due uomini di allora, solo con la stessa differenza d’età, che camminavano giovani per le strade di Roma. Può darsi che la gabbia si trovi ancora in quella soffitta, ora veramente abbandonata. E che al suo interno ci sia ancora il portapenne di marmo. Fra le sue minuscole colonne, dentro la gabbia grigia, camminiamo noi come siamo adesso.      

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I'm not afraid to say I hear a different beat

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In principio era Lucky Star. Mesi e mesi di Lucky Star. Ricordo ancora la cassettina duplicata dal 33 giri. E non riuscivo ad andare oltre quella canzone. Non ci riuscii per anni. Sul lato B c’era un best di Hall & Oates, cagato solo molto tempo dopo. Manco sapevo che faccia avesse lei. Poi cominciarono a girare i video di Like a Virgin e di Material Girl, e a quel punto finalmente conoscevo alla perfezione quella faccia e le sue espressioni, nonchè quel corpo e le sue mosse. Potevo replicare tutto. Era la quintessenza della figaggine. Non c’era niente di più cool. Premevi play e diventavi lei. Stavamo nella casa in cui sono cresciuto. Dividevo la stanza con mio fratello. Era una stanza enorme, con due letti, un tavolo grandissimo, e in mezzo uno spazio immenso in cui ballare. Dovevi chiuderti a chiave se non volevi essere sorpreso da qualcuno nel bel mezzo del rito sciamanico, ma diciamo che dall’esterno si capiva benissimo cosa stesse succedendo. Mia nonna al piano di sotto mi sentiva galoppare. Questo finchè ritenni le gioie del playback sufficienti ad appagarmi. Poi costrinsi mio fratello a trascrivermi i testi di tutte le canzoni. Lo vedo ancora concentrato a capire le parole, e mi sembra di avere in mano tutti quei foglietti pieni di cancellature. Erano sempre meglio dei testi farlocchi che uscivano su Sorrisi e Canzoni. Sono cose che non si dovrebbero dire, ma al chiuso di quella camera, mentre fuori risplendeva la gloria dei pomeriggi estivi, l’identificazione era totale. Un universo a una sola stella. Fuori, del resto, non è che ci fosse granchè di notevole. L’unica era Carmen, che mi appare a un angolo della Villa Comunale, in minigonna di jeans e capelli multicolori, la faccia leggermente incazzata, percepita dalla cittadinanza come un essere alieno. E in effetti lo era. Un coraggio del genere, quell’attitudine, quella strafottenza si vedevano solo in Susan, e sono rari perfino oggi, qui. Essere diventato suo amico anni dopo è motivo che mi riempie di orgoglio. Era il prototipo della wannabe, prima che si cominciasse a parlare di wannabe, e ce l’avevo sotto casa. Quella casa e quella stanza sono legate ai primi album. True Blue lo ascoltavamo al mattino prima di andare al liceo, nell’unico anno in cui io e mio fratello frequentammo la stessa scuola. Lui si lamentava che Live to tell fosse eterna, e che metterla su implicasse necessariamente arrivare in ritardo. Il mio vicino di banco una mattina aggiunse un “Baby, I love you” al “True blue” che avevo scarabocchiato a penna sulla mia sedia. Lo ignorai. Rileggevo come fosse un testo sacro la recensione di Rockstar. Madonna è bella come un angelo sulla copertina di True Blue. Parole che ti fottono e ti restano scolpite in mente in maniera indelebile, per saltare fuori nei momenti meno opportuni. Tipo quando stai scopando, o mentre la municipale ti interroga dopo che hai sfasciato tre macchine e divelto un cancello. Non che fossero parole particolarmente icastiche, ma, insomma, le più grandi verità sono anche le più semplici. Poi rimasi padrone incontrastato della stanza che dividevo col fratellone, e questo coincise col concerto di Torino e l’uscita di You Can Dance. Dopo un evento come il concerto di Torino, il down era quasi insopportabile, però era bellissimo vedere una accanto all’altra nella libreria le cassettine uscite fino a quel momento. Il contrasto tra il colore di True Blue e quello di You Can Dance mi provoca ancora orgasmi inspiegabili, tuttavia era indubbio che quello fosse un periodo di depressione planetaria. Roba che neanche nel 29 o, poniamo, nel 94 quando ad alleviare l’astinenza apparve nientemeno che I’ll Remember. Tutto l’88 fu una passeggiata sull’orlo del precipizio della disperazione, e dentro quel precipizio c’erano solo Speed the Plow e lei che scaraventava rabbiosa mazzi di fiori contro piccoli fan in lacrime. Potevi giusto chiuderti in camera, al buio, e riscoprire perle fin lì ignorate, tipo White Heat. O il bridge di Love Makes The World Go Round, essendo il resto della canzone imbarazzante perfino in quei tempi di innocenza e inconsapevolezza. Like a Prayer sancì il trasferimento nella casa nuova, offrendomi un rifugio musicale vagamente mistico. Difficoltà di adattamento. Una luce nuova. Una vista diversa. Una stanza più piccola, in cui era praticamente impossibile lasciarsi andare. Ci provai, ma di quel periodo rimangono solo una sensazione di immobilità, di contemplazione, e una visione di luce artificiale che di notte entra dal balcone spalancato e fa presagire il futuro. “E’ tornata alla bigiotteria di Like a Virgin” fu il laconico commento di mio fratello. In effetti i crocefissi c’erano ancora, però con un contorno di veli viola, pietruzze colorate e profumo di patchouli che rendeva il tutto piacevolmente hippie. Potevi passare dall’estasi religiosa alle liti coniugali. Ed era dura decidersi tra la difesa dei valori familiari e la voglia di mollare tutto e unirsi alla guerriglia. L’estate del 90 fu bruciante e noiosa. Era imminente l’addio ai luoghi che mi avevano visto arrivare ai 17 anni. Andavo al mare per i cazzi miei, con qualche amico. Avevo questi boxer nuovi da cui si intravedeva la ciolla. Tornavo dalla spiaggia, e anche se fuori era giorno, chiudevo tutto, accendevo la luce, e mettevo su I’m Breathless, cercando di legarlo al tempo che stavo vivendo. Se ancora ricordo la sensazione di calore sulla pelle dopo il sole, può essere che forse ci sia riuscito. 

L'Isola degli Uomini

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Nel fatidico otantasete mia madre e mio fratello si tolsero dalle palle per una settimana e se ne andarono in Baviera, regalando a me e mio padre una luminosa settimana di pace e libertà. Mio padre era uno che si faceva i cazzi suoi e consentiva a te di farti i tuoi. Ho sempre cercato di imitare, senza riuscirci, la sua capacità di assorbire certi eventi -che a me personalmente avrebbero causato travasi di bile e un ribollire di rancori e recriminazioni- senza far trasparire la benchè minima emozione. Probabilmente gli stava sul culo che io, stronzetto tredicenne, andassi e venissi quando mi pareva, stessi alzato fino all’alba, mi alzassi all’ora di pranzo, uscissi certe mattine per andare a scuola e tornassi dopo un paio d’ore passate in giro a truzzeggiare in modi che evito di rivelare per conservare una parvenza di dignità. Mi chiedo se intuisse una frociaggine prorompente nel fatto che durante quella settimana sviluppassi una preoccupante ossessione per Mae West e l’uso del verbo “rammentare”, mutuato dalla Ingrid Bergman devastata di Io Ti Salverò. Quando mia madre e mio fratello tornarono, tornò anche la pioggia e tutto questo ebbe fine. In compenso grazie a loro iniziò un’altra ossessione, ancora più finocchia. Avevano visitato Neueschwanstein, e i loro racconti brillavano di ori falsi e concupiscente decadenza. Ne fui fottuto. Intuivo già che Ludwig non fosse tutto sto pazzo, ma dovetti aspettare il film di Visconti per cominciare ad averne una visione più equilibrata. Se davvero era pazzo, lo ero anch’io. Anni dopo, Neueschwanstein mi deluse. Era novembre, pioveva, ma le orde di turisti e il rigore teutonico che consentiva di permanere in un ambiente solo per pochi minuti, dopodichè si veniva spinti in quello successivo con un tatto ai limiti del nazismo, guastarono qualsiasi poesia. Castello delle favole di sta minchia. Che esploda, se deve vivere così. Per questo motivo non mi aspettavo molto da Herrenchiemsee, all’alba di quest’anno. Volevo solo aggiungere un’altra tacca. E poi mi è sempre piaciuto il modo in cui Helmut Berger pronuncia il suo nome. Come tutte le volte che non ci si aspetta un cazzo, le cose sono andate all’opposto. Eravamo in ritardo sulla tabella di marcia. Non avevamo neanche idea che il castello sorgesse su un’isola al centro di un lago. Tra l’Isola delle Donne e l’Isola degli Uomini, Ludwig ha scelto di costruire su quest’ultima. Pensa un po’. Ci siamo arrivati guidando attraverso campi sepolti dalla neve. Era come viaggiare silenziosamente nell’ovatta, il cielo era bianco come la terra. Il traghetto, un trabiccolo coi sedili di velluto rosso attraccato e partito in mezzo a un nugolo di cigni e anatre come da protocollo, sventolava bandiera bavarese. Bianca e azzurra. Ho passato la maggior parte del tragitto a congelarmi a poppa. O a prua, che ne so. La sensazione era quella di rivivere certe scene di Ludwig e perfino di Morte a Venezia. Il che mi ha stupito. Insomma, a Versailles a tutto pensi tranne che a Lady Oscar, e l’intera situazione ricorda più quella di una fiera paesana. Già questo mi bastava. All’arrivo, il molo era sorvegliato da un corvo enorme, e lì a momenti tornavo indietro: quel corvo stava dove volevo passare io, e io non passo se il corvo non si sposta. Per fortuna si è spostato, e questo simpatico donnone dietro un vetro ci ha avvisato che il castello stava per chiudere, e che ci volevano venticinque minuti a piedi per arrivarci, quindi schnell, schnell! Io mi aspettavo almeno una carrozza, invece abbiamo dovuto pattinare col fiatone su un sentiero che era una lastra di ghiaccio e che si snodava enigmatico in mezzo a una piccola foresta innevata. Dopo cinque minuti -probabilmente i venticinque della bigliettaia erano tarati sul turista medio, prossimo alla tomba e sovrappeso- siamo arrivati davanti a questa piccola Versailles. Ci hanno intruppato con altri turisti, ma eravamo proprio quattro gatti. Scendeva il crepuscolo, tutto era avvolto in una penombra blu. La scena in cui Elizabeth visita Herrenchiemsee e scoppia a ridere è una delle mie preferite. L’atmosfera era quella, ed era intatta. Si passa attraverso una teoria di sale. Velluti, ori, marmi, le solite cazzate. Un’aria non diversa da quella del salotto buono di mia zia quando ero piccolo, solo un po’ più pomposa. Ma era come se la solitudine e la misantropia, aiutate dall’ora in cui la luce si va spegnendo, avessero davvero un corpo. Se mai ho sentito qualche presenza ultraterrena, è stato in quei momenti. La Galleria degli Specchi risuona ancora della risata di Romy Schneider (la ripresa è geniale: Romy entra, alza un braccio fermando la dama di compagnia –quella stupida della Ferenczy– e la sua risata è dapprima un suono lontano, poi aumenta di volume a mano a mano che l’imperatrice avanza, e questo dà l’idea dello spazio). Una volta usciti, eravamo da soli. Gli altri si erano affrettati verso il traghetto. Noi ce la siamo presa comoda, anche se attaversare una foresta innevata, per quanto piccola, quando la sera è già scesa, con la paura che l’ultimo traghetto stia per partire mentre tu sei lì a trastullarti coi tuoi fantasmi, è un’esperienza non proprio tranquillizzante. Sulla destra si è aperto un canneto. Era impossibile non pensare a Ludwig intento a spiare Mayr prendere, nudo, un bagno notturno. Nevicava pure, quando siamo arrivati al molo. Il blu sfumava in un’oscurità acquatica che lasciava ancora intravedere cigni, canne, gradini corrosi che scendevano nella melma. Nella mia superficialità ho sempre attribuito un’importanza fondamentale a certe atmosfere. C’è stato pure un tempo in cui cercavo di ricrearle artificialmente, riuscendo di rado nello scopo e ricavandone soprattutto frustrazioni, perchè appena hai la sensazione di aver afferrato qualcosa di così impalpabile, quello è proprio il momento in cui ti si disfa tra le mani e marcisce. E’ stato consolante scoprire di poter conservare ancora qualche illusione, non so quanto inutile, non so quanto meramente estetica.

 

 

(All’inizio del video ci sono Linderhof e la riproduzione della Grotta Azzurra. Quelli sono cioccolatini che scarterò in un’altra stagione. L’incedere di Romy Schneider e i suoi movimenti sono la perfezione. Elizabeth doveva muoversi così. Dubito che qualcun’altra oggi -e faccio un nome a caso: Michelle Pfeiffer- possa ripetere certi miracoli. Anche perchè sarebbe dura trovare un altro Visconti che la diriga. Stare ai piedi di quella scalinata mi ha avvicinato alla commozione. Ho dovuto salire con rammarico la rampa sulla destra, sempre guardando l’altra e avendo visioni della Schneider bardata a lutto. Sì lo so, la mia frociaggine è immane, ma certe cose sono senza rimedio e non resta che venirci a patti).