Io e Carolina
Non vorrei morire dopo aver visto Napoli. Vorrei semplicemente tornarci. Oscuramente presagivo che me ne sarei innamorato, ma come l’innamoramento nei confronti di una persona è qualcosa che mi ha sempre fatto tremare un po’ i polsi (quando sei da solo sei tutto tuo, quando sei con un altro sei per metà tuo, diceva la buonanima) lo stesso vale per una città, e segnatamente una città come questa, quindi avevo alzato rispetto a Napoli resistenze imponenti come le mura di Gerico. Neanche mi ci fermavo per un cambio di treno, all’inizio per paura, ultimamente per non cadere vittima di una fascinazione che sentivo imminente. Alla fine ho dovuto cedere, anche perché tutto -amici, treni, sfogliatelle- mi portava là. Ho sempre avuto repulsione per il caos e il disordine, per la mancanza di regole, e mi sono piccato fin dalla più tenera infanzia di essere un tipo preciso, quasi teutonico. Malgrado i miei mi raccontassero storie colorite e vivaci circa il loro soggiorno a Napoli durante il loro viaggio di nozze, malgrado le risate scatenate dai loro aneddoti, malgrado mi avessero tirato su a film della Wertmueller e commedie di Eduardo, io mi ero sempre detto che l’ordine nordico e teutonico fosse più indicato per un ragazzino che sistemava i libri in ordine alfabetico e parlava piano pur senza andare in giro armato. Non avevo messo in conto la noia, e non avevo messo in conto il marcio che sempre e comunque si nasconde pur dietro la cortesia e l’educazione più smaccate. La Danimarca insegna. Alla fine, messo il piede giù dal treno, ho dovuto riconoscere che quella fiumana di umanità vociante, di monnezza, di motorini sfreccianti con a bordo tre o quattro persone senza casco, di vecchie travestite che ti apostrofano con violenza ma in qualche modo con affetto, di vajasse che fumano eternamente affacciate sulle vie strette tra palazzi altissimi cadenti e drappeggiati di panni stesi, di vecchi malandati che ti vendono gobbi e cornetti e ti augurano una fortuna da cui loro con ogni evidenza non sono stati baciati, non aveva semplicemente fascino, ma una bellezza in grado di ammaliare e imprigionare. Lo so, rischio di cadere nell’oleografia, nel bozzetto alla Salvatore di Giacomo, nel cliché più vieto, ma francamente me ne fotto, come qui avrebbe detto Rhett a Rossella lasciandole come unica alternativa quella di scapparsene non a Tara ma a Posillipo. Il cliché è ovunque, e in una misura tale da annientarne l’essenza. E’ nelle chiese che spuntano a ogni giro di vicolo, talmente dirute che un terremoto potrebbe più riassestarle che danneggiarle. E’ nei manifesti a lutto, che sdrammatizzano la morte grazie ai soprannomi che distinguono il defunto dalle migliaia di omonimi anonimi ancora in vita. E’ nei presepi che dalle botteghe prolungano il natale oltre l’epifania. E’ nelle persone che ti inquadrano con uno sguardo, individuano con la precisione di un sensitivo la tua essenza e in un giro di frase ti mettono davanti al tuo vero io come neanche uno psicologo saprebbe fare, ti spogliano di ogni maschera e ti lasciano solo quella che avevi o avresti voluto avere fin da quando eri piccolo e che pensavi di avere ormai seppellito sotto cumuli di educazione e dissimulazione. Quando sono risalito sul treno e, in prima classe, ho dovuto subire la cafonaggine di tre cumenda milanesi che latravano come fossero nel loro salotto e guardavano tranquillamente le partite incuranti del prossimo che li circondava, mi sono reso conto di quanto fosse più elegante e urbano il baccano di Forcella e di Via dei Tribunali, di quanto la distesa di birre rotte e spazzatura che ogni sera si allarga per piazza Bellini come un’inarrestabile colata di lava fosse più umana, autentica, e meno affettata di tanta falsa cortesia che per anni ho ritenuto rendesse la vita più facile e che invece, forse, la rende solo vuota e noiosa. Lo so, gli occhi dell’amore sono miopi, o strabici, o quel cazzo che volete voi. E Napoli sarà anche piena di difetti. Ma l’amore è proprio questo, trasforma i difetti in pregi. Non so quanto durerà, niente dura, ma finché dura non c’è altro da fare che goderselo. E oltre ad essere banale e bozzettistico, voglio pure essere presuntuoso: ho la sensazione di essere ricambiato. Più di quarant’anni fa i miei genitori arrivarono a Napoli con una seicento fiammante, detta Carolina, bianca e senza un graffio, col portabagagli carico di valigie. Parcheggiarono senza neanche chiuderla, si fecero un giretto, e quando tornarono Carolina era ancora là intatta, con tutto il suo carico, alla faccia di tutti i cliché o forse proprio grazie a quei cliché. Quasi quasi parcheggio pure io, e manco metto le sicure.